La carovana del sale – Elena Dak

31k4FOcPjJL._BO1,204,203,200_Dopo 52 capitoli e quasi 150.000 parole, sono ormai giunta ben oltre la metà nella stesura di LEDE.
Ho impiegato circa un anno e mezzo per giungere a questo punto e ho ormai una discreta conoscenza dei due terzi del mio mondo fantastico.
Il terzo rimanente, invece, è al momento buio completo. O meglio, ho un’idea ben precisa delle tribù che abitano il territorio ma la quasi totalità degli eventi che intendo narrare si svolgono in un vasto deserto simil-sahara di cui non conosco nulla, se non che fa caldo e che c’è sabbia.
Ho così iniziato il mio certosino lavoro di documentazione pre-scrittura e, come prima lettura, mi sono buttata su “La carovana del sale”, di Elena Dak.

Il compendio di viaggio
L’autrice, a seguito di una circostanza particolarmente fortunata, ha potuto realizzare il suo sogno: seguire i tuareg in una “carovana del sale”.
Ogni anno, tra l’autunno e l’inverno, i tuareg che abitano il nord del Niger migrano verso le saline e le oasi di Bilma e Fachi per rifornirsi di sale e datteri che poi trasportano a sud per scambiarli con il miglio che sta alla base della loro alimentazione.
Il libro ripercorre il viaggio compiuto dall’autrice tra le dune e le falesie a dorso del dromedario Osvaldo e al fianco di 30 uomini con 300 dromedari.

L’alimentazione dei tuareg
Ammetto che non solo non avevo alcuna conoscenza delle problematiche della vita nel deserto ma sapevo anche poco o nulla a proposito dei tuareg.
L’alimento base dell’alimentazione del popolo tuareg è l’éghalé, un impasto di farina di miglio, datteri e formaggio di capra. Questo impasto, al momento della consumazione, viene spezzettato e sciolto in acqua.
Parte della loro dieta si compone anche di polenta, latte, interiora di capra cotte nel burro e pane cotto sotto la sabbia rovente e le braci.
Ihalen si alzò nel buio, dissotterrò il nostro pane sulla cui superficie aveva inciso il mio nome, Tellit*. Raschiò con un coltello le parti appena abbrustolite e lo picchiò forte col palmo. Si levarono piccole nuvole di farina e polvere. Portò il pane tondo e pesante in mezzo a noi, poggiato su uno straccio, lo ruppe in grossi pezzi facendo proprio il gesto più antico e sacro, e a quel punto venti mani, intorno a un solo fuoco, ridussero quel pane in piccolissimi pezzetti. C’era silenzio, tutti stavano a terra inginocchiati coi busti protesi in avanti concentrati a sminuzzare.
Per il trasporto dell’acqua, bene prezioso nel deserto, vengono utilizzate otri di pelle di capra. La pelle viene riempita prima con i frutti dell’acacia albida e dopo un po’ di tempo dalla corteccia rossa di un’altra acacia che assorbe l’odore dell’animale. Infine l’otre viene cucita con ago e filo di fibre di palma intrecciate.

Le corde
In una delle due notti della paglia, i due anziani, senza taghelmoust e con i riflessi della luna sulla barba, usando la presa stretta delle dita dei piedi, intrecciarono corde con spesse fibre di palma fino a tardi. Si muovevano nel buio con una disinvoltura che non conoscevo, e le loro dita procedevano con maestria antica nell’incastrare, attorcigliare, torcere, intrecciare, parlando e ridendo sotto voce. Le mani vecchie e i piedi ruvidi che tante sabbie e tante pietre avevano calpestato si destreggiarono abili nel buio. Le corde sono oggetti fondamentali per le carovane. Servono per unire i carichi tra loro, mettere a punto il ricco corredo di guinzagli e museruole, legare le zampe degli animali e per annodare qualunque oggetto sopra ai bagagli; stringere le stuoie attorno ai pani di sale o serrare i covoni di paglia.
Le notti o giorni della paglia corrispondono al periodo in cui i tuareg fanno scorta di paglia che verrà poi caricata sui dorsi dei dromedari e che fungerà da nutrimento per gli animali nel corso del viaggio.

Taghelmoust
Il taghelmoust è il tipico copricapo tuareg. La fascia che copre la fronte rappresenta l’insieme delle cose che rendono un uomo degno di essere chiamato tale: il coraggio, la forza e la lealtà. La parte che copre bocca e naso simboleggia la fedeltà alla propria parola.
Chi non solleva il velo davanti a una donna o a un uomo più anziano o a un’autorità non è un uomo”.

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Il racconto da parte dell’autrice
A differenza di molti altri compendi di viaggio che mi è capitato di leggere, l’autrice non si sofferma mai a lungo sulle difficoltà fisiche a cui il deserto l’ha sottoposta. Persino la descrizione della malaria, contratta nel corso della carovana, si focalizza sulla nostalgia di casa, sulla voglia di telefonare alla madre e su tutte quelle persone che le sono state vicine durante il ricovero in ospedale. I tuareg con i quali ha compiuto la carovana si sono davvero preoccupati per lei.
Tutta la narrazione è avvolta da un sottile velo di magia, tra la sabbia del deserto, le sottili figure dei dromedari, le esili figure degli uomini blu e l’immensa volta stellata.
Mi stavano accogliendo lentamente nel loro mondo, nel loro silenzio, nel loro modo di fare le cose. Meno chiesi e più mi venne dato. Potevo imparare la pazienza, la condivisione, la generosità, l’attesa. Mi sentivo teneramente accolta dentro un mondo fragile, e per questo dal valore inestimabile.
L’autrice osserva in punta di piedi le usanze e i rituali di un popolo, vive a contatto con loro, condivide cibo e spazi, apprende alcune parole di tamachek.
E anche i tuareg fanno il possibile, con piccoli gesti, per far sì che lei si senta accettata e che possa rendersi utile, se lo desidera.
Parlai col mio Vecchio per sapere da lui se le mie parole o atteggiamenti avessero mai infastidito qualcuno. «Non immagini neppure» mi disse «la tenerezza che hanno per te. Sarebbero pronti a fare qualunque cosa per la tua serenità. Quando non fotografavi erano preoccupati!»

In uno degli ultimi capitoli, l’autrice riporta una breve riflessione:
Chi parte solo non viaggia da solo. Ora lo sapevo meglio che mai. Dal passaggio in auto con Michelino, al viaggio nell’Aïr, alla famiglia di Tagougamat, alla carovana tutta, all’ospedale, a Tagha, a Timia, ad Agadez e in corriera non ero mai stata sola.

Al di là della documentazione, “La carovana del sale” è stata per me una lettura interessante sulla vita e la cultura di un popolo di cui non conoscevo praticamente nulla, narrato da un punto di vista estraneo al mondo dei tuareg tanto quanto lo è il mio.
La meraviglia dell’autrice e le descrizioni accurate di quanto ha vissuto rendono semplice calarsi in una realtà totalmente estranea alla nostra, condividendo stupore, gioia e tenerezza.

*L’autrice spiega che Elena, derivante dal greco selene (luna), era di difficile pronuncia per Mahmoud che l’ha così ribattezzata Tellit, luna in tamachek.

4 Comments

  1. “Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita – forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna – forse venti – eppure tutto sembra senza limite.”
    citazione da “Il tè nel deserto” di Paul Bowles

    Ciao Chiara,
    non conoscevo il testo di cui ci parli oggi ma ricordo che, dopo la lettura del libro di Bowles, avevo manifestato alla mia famiglia il desiderio di provare l’ebbrezza di un viaggio nel deserto, in una zona tranquilla… qualche mese dopo, nello stesso anno, la primavera araba metteva la parola fine al mio proposito…
    Comunque grazie! Il tuo articolo di oggi rinnova il rispetto e l’interesse verso il popolo dei Tuareg.
    Buona settimana 🙂

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    1. Ciao Mary, non ho mai letto “il tè nel deserto”, anche se campeggia sulla libreria di casa da quando sono nata.
      Capisco bene il desiderio di visitare il deserto africano per quanto, purtroppo, questo periodo non sia dei più adatti.
      Buona settimana anche a te 🙂

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