Negli ultimi giorni sono stata impegnata con la stesura di alcuni capitoli impegnativi di LEDE e con la scrittura di un racconto che, se riterrò essere almeno al livello della decenza, presenterò a un concorso.
Per queste ragioni, la seconda parte del reportage del mio viaggio in Marocco si è fatta un po’ attendere ma, alla fine, eccola qui.
28 agosto
La mattina seguente siamo partiti per il trasferimento verso Erfoud.
La nostra prima tappa è stata la moschea di Zagora, dall’esterno.
Lì abbiamo appreso che la maggior parte delle moschee sono costruite da privati, che si impegnano a realizzare anche appartamenti e negozi così che possano, grazie agli affitti, coprire i costi di mantenimento della moschea.
Khalid ci ha raccontato che, sotto ai portici, un tempo, c’erano numerosi mendicanti, affetti da varie patologie mentali, che vivevano di elemosina. Alcuni si trattenevano anche per un decennio, sostenendo che la moschea li avesse chiamati allo scopo di guarirli.
Così è stato finché il governo non ha spinto per il trasferimento dei mendicanti in strutture psichiatriche. Durante la nostra visita abbiamo visto solo un paio di persone dormire sotto i portici della moschea e abbiamo pensato che, in fondo, non è poi così diverso dai credenti che, alla ricerca di una guarigione miracolosa, si recano a Lourdes o a Medjugorje.
Il resto della giornata è stato per lo più impiegato nel viaggio, con una breve sosta per il pranzo e qualche tappa per ammirare il vasto paesaggio brullo del Grande Sud del Marocco.
Ci siamo fermati davanti a un’immensa distesa pietrosa, in cui abbiamo potuto avvicinare una ventina di dromedari che pascolavano liberi, in mezzo al nulla, e si cibavano di sterpaglie e acacie solitarie.
Niente rumori di motori, voci umane o cinguettare di uccellini.
Il solo e unico suono era il vento.
Prima di recarci all’albergo, abbiamo fatto tappa in un’azienda di lavorazione dei fossili. Le montagne dell’Altlante, sommerse dai mari nel corso della preistoria, sono ricche di fossili di ogni forma e dimensione che le famiglie locali estraggono dalle cave e lavorano per dar vita a dei piccoli capolavori, dal semplice portachiavi che segue i resti pietrificati di una conchiglia, ai tavoli lucidati in cui sono visibili le ossa fossilizzate dei calamari.
Il lavoro di estrazione è svolto per lo più da berberi che, avendo cessato di prendere parte alle carovane del sale attraverso il deserto, a causa del prosciugamento dei pozzi dovuto ai cambiamenti climatici, si sono riadattati ad accompagnare i turisti sulle dune a dorso di dromedario durante la stagione turistica e a lavorare nelle miniere per il resto dell’anno.
29 agosto
È stato il giorno della levataccia, alle 3.30, per assistere all’alba nel deserto.
Si è trattato di una scelta volontaria, nel senso che avremmo potuto recarci sulle dune al tramonto del 28 agosto.
Mai scelta si rivelò più azzeccata.
Se avessimo scelto il tramonto, non avremmo visto un bel niente, a causa della tempesta di sabbia che rendeva impossibile anche stare in piscina o camminare per strada senza restare accecati dalla polvere.
Gli autisti, in jeep, sono venuti a prenderci in albergo e, nel buio pesto delle piane desertiche marocchine, ci hanno portati ai piedi delle dune.
Con l’illuminazione pubblica, è facile dimenticare quanta luce la luna sia in grado di restituire alla Terra, permettendoci di vedere anche senza torce.
Siamo quindi saliti in groppa ai dromedari.
Devo dire che pensavo che me la sarei cavata molto peggio. Avevo il terrore di schiantarmi di faccia sulla testa del dromedario, invece non è accaduto nulla. È sufficiente tenere le braccia ben distese e puntate al perno di ferro centrale, sia durante la salita, che durante la discesa, per scongiurare qualsiasi incidente. Per il resto, una volta che il dromedario è in piedi, occorre assecondarne il movimento e sbilanciarsi all’indietro durante le discese dalle dune.
Si può anche scegliere di non farlo, ma il vostro sedere non vi ringrazierà.
Giunti in cima a una duna, ci siamo fermati. I nostri accompagnatori hanno steso a terra delle coperte e ci siamo messi in attesa del sorgere del sole.
Era incredibile osservare la velocità con cui cambiavano i colori. Dal buio della notte illuminata dalla luce fredda della luna, passando attraverso il grigiore della sabbia e le prime tracce d’azzurro in cielo, fino all’apparire del sole rosso dell’alba, che ha tinto la sabbia di un’intensa sfumatura arancione.
Una foto di gruppo per immortalare il momento e siamo ripartiti alla volta delle gole del Todra.
Abbiamo fatto una sosta lungo la strada per ammirare i cataratti, dei buchi profondi scavati nella terra allo scopo di raccogliere acqua piovana e incanalarla verso i palmeti.
Siamo infine giunti a destinazione, dove abbiamo fatto una rilassante passeggiata in mezzo alle profonde gole di roccia rossa scavate dal fiume Todra.
Sulle sponde del fiume c’erano decine di persone intente a fare il bagno o a preparare un pic-nic in compagnia.
Terminata la gita alle gole, abbiamo avuto la possibilità di visitare un palmeto.
È difficile immaginare quanto potesse essere verde e rigoglioso all’interno. L’erba brillante e le piante colme di foglie contrastavano con il paesaggio marocchino a cui ci eravamo abituati fino a quel momento.
Il terreno del Marocco è fertile, ricco di sostanze nutritive che agevolano la crescita della vegetazione.
L’unica grande assente è l’acqua, infatti molti villaggi si stanno opponendo alle coltivazioni di angurie e meloni in prossimità dei centri abitati proprio perché le irrigazioni ingenti causano crisi d’acqua nella popolazione.
Una menzione speciale, durante la visita nel palmeto, va alla nostra guida, un amico di Khalid, che si è prestato a un centinaio di foto diverse con il “cheese” marocchino: tajine-cous-cous!
La giornata ancora non era conclusa.
Lasciato il palmeto, ci siamo diretti in una bottega in cui venivano venduti tappeti realizzati a mano. La bottega era gestita da una cooperativa per il sostegno alle donne vedove o divorziate.
I tappeti erano tutti di materiali differenti, dalla lana alla seta d’agave, tessuti con le tecniche più varie ed era un piacere per il tatto.
30 agosto
Abbiamo iniziato il rientro, passando per Ouarzazate, dove ci siamo fermati ad ammirare la Kasbah Taourirt.
Era un giorno particolarmente caldo, le piogge dei giorni precedenti avevano ormai ceduto il passo a un sole cocente, il che ci ha permesso di apprezzare l’eccellente sistema di ventilazione interno alla kasbah, in cui la temperatura era percettibilmente più bassa che all’esterno.
Come in tutti gli edifici storici marocchini, la simmetria è un elemento imprescindibile.
Dalle finestre della kasbah, era possibile ammirare sfingi e piramidi, che davano l’impressione di trovarsi in Egitto.
La kasbah è infatti collocata di fronte ai set cinematografici di Ouarzazate, la Hollywood marocchina, dove sono stati girati film quali Lawrence d’Arabia e Il tè nel deserto.
Risaliti sul pullmino, ci siamo diretti ad Ait Ben Haddou, villaggio arroccato in cima a una collina, lungo il fiume Ouarzazate, in origine nato come ksar, città fortificata.
Il villaggio conserva ancora gli edifici costruiti con terra, paglia e acqua. Le strade di ciottolato grezzo salgono, un gradino alla volta, verso la sommità della collina, dalla quale si può ammirare un panorama mozzafiato sul fiume e sull’intera vallata.
31 agosto
Si è di fatto trattato di una giornata di viaggio, per rientrare a Marrakech.
Dal momento che il tour era ormai concluso e che il pomeriggio era libero, abbiamo trascorso qualche piacevolissima ora nel souk, per gli ultimi acquisti, con i nostri compagni di viaggio e, la mattina seguente, alle 9, abbiamo ripreso l’aereo per rientrare in Italia, decretando così la conclusione del mio primo viaggio fuori dall’Europa di cui, ne sono certa, porterò sempre con me i paesaggi desertici del Marocco.
Non di rado, guardando fuori dalla finestra, sogno di stare ancora sulle dune, ad attendere l’alba.
In aggiunta, vi lascio il link al videomontaggio eseguito da Andrea Manente, uno dei componenti del nostro indimenticabile gruppo di viaggiatori:
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